Pugliese: Melinda virtuosa in un settore troppo frammentato

Pugliese: Melinda virtuosa in un settore troppo frammentato
"Aver reintrodotto in etichetta l'indicazione della sede dello stabilimento di produzione o di confezionamento per i prodotti alimentari significa aver ribadito un "principio di civiltà" contro le potenti lobby internazionali che avevano spinto per l'abolizione dell'obbligo a livello comunitario".

Parte da qui Francesco Pugliese, ad di Conad, che riconosce al governo il merito di aver dato una soluzione ad una "legge insensata", entrata in vigore a metà dicembre scorso con il Regolamento europeo 1169/11, che ha reso di fatto facoltativa l'indicazione del luogo di produzione.

"La decisione di ripristinare l'obbligatorietà di indicare lo stabilimento di produzione nell'etichettatura degli alimenti rappresenta, però, solo il primo passo verso il definitivo superamento di questa normativa", osserva Pugliese. Non a caso, in attesa della notifica di autorizzazione della Ue alla legge delega del governo, l'ad predica prudenza: "L'impegno del governo è senza dubbio un ottimo segnale, ma Conad e le insegne della Gdo, che in questi mesi hanno portato avanti la battaglia per rendere trasparente la tracciabilità degli stabilimenti di produzione e per evitare la delocalizzazione delle eccellenze agroalimentari italiane, saranno felici solamente dopo la preventiva autorizzazione della Ue".

Per ottenere l'ok di Bruxelles, l'Italia insisterà sulla legittimità dell'intervento in applicazione di quanto previsto dall'articolo 38 del regolamento n. 1169/2011, motivandola in particolare con ragioni di più efficace tutela della salute dei consumatori. "E' evidente che l'indicazione dello stabilimento in etichetta tutela i consumatori  - sottolinea Pugliese -, perché in questo modo sulle confezioni dovrà essere indicato l'indirizzo della sede della fabbrica in cui vengono elaborate le materie prime, informazione fondamentale per risalire al luogo in cui si svolge effettivamente la produzione".

In sostanza, fa notare l'ad, una multinazionale straniera può comprare un marchio italiano non avendo l'obbligo di indicare in maniera trasparente lo stabilimento di produzione sull'etichetta, e, qualora decidesse di produrre fuori dall'Italia, questo non risulterebbe in alcun modo. Il consumatore quindi crede di acquistare un prodotto italiano quando in realtà non lo è, venendo inevitabilmente tratto in inganno.

Il problema esiste, ed è serio, come testimoniano i numeri allarmanti sul giro d'affari annuo dell'italian sounding (l'utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l'Italia per promozionare e commercializzare prodotti non riconducibili al nostro Paese). Un business stimato in oltre 60 miliardi di euro l'anno. Almeno due prodotti su tre commercializzati all'estero si riconducono solo apparentemente al nostro Paese (Fonte: Ministero dello Sviluppo economico).

Pugliese insiste anche sull'importanza del Made in Italy, che si traduce nella capacità di trasformare e rendere unico al mondo un prodotto dando vita ad una eccellenza. "Prendiamo, ad esempio, la pasta  -  spiega l'ad  -  buona parte del grano utilizzato per produrla è di provenienza estera, ma la trasformazione della materia prima in qualità e valore ha radici nella tradizione e nella capacità dei pastai italiani".
Questo vale anche per tanti altri prodotti non food che rappresentano il Made in Italy nel mondo. Infatti, oggi le uniche filiere che garantiscono il 100% del prodotto nazionale sono quelle dell'ortofrutta, del vino, delle uova e della carne di pollo. Tutte le altre sono deficitarie e occorre ricorrere all'importazione di materia prima dall'estero.

Il problema, secondo Pugliese, è però a monte. E riguarda le dimensioni delle nostre filiere. "I mercati a Km 0 e la produzione del piccolo artigianato locale vanno letti in una logica culturale più imprenditoriale - puntualizza -. Vanno indubbiamente tutelati e sostenuti, ma non è questo il punto: per ognuno dei 273 prodotti Dop e Igp che raggiunge ogni angolo del mondo, ce ne sono tanti altri che non riescono a soddisfare neppure il consumo nazionale".

Ma i nodi al pettine sono tanti, e Pugliese li mette tutti a nudo: "Innanzitutto, occorre investire sulle politiche di promozione superando quello che per il made in Italy è un vero e proprio limite: la frammentazione degli attori in campo. Vale a dire i consorzi di tutela, le Camere di commercio, gli enti locali, le Regioni, il ministero, le associazioni di prodotto, la Comunità europea con i suoi progetti".

Allo stesso tempo, secondo Pugliese, "occorrono piattaforme logistiche capaci di concentrare l'offerta". "Non ci si può presentare sul mercato internazionale con tantissimi produttori  -  osserva - quando i principali competitor arrivano sul mercato ben organizzati in un numero ridotto di produttori associati. L'unico esempio italiano virtuoso è quello del consorzio Melinda. Parliamo di 4 mila famiglie di frutticoltori che coltivano mele e conferiscono, in qualità di soci, ad ognuna delle 16 cooperative a cui sono associate e che costituiscono il consorzio Melinda, a cui hanno demandato tutte le attività successive alla raccolta".

Fonte: la Repubblica