Albicocche: la spinta dell'innovazione e i rischi dietro l'angolo

La discreta remunerazione accresce l'interesse degli operatori

Albicocche: la spinta dell'innovazione e i rischi dietro l'angolo
Negli ultimi anni l'albicocco è stata una delle poche specie frutticole che non ha deluso le aspettative dei produttori. A differenza del pesco, che vive crisi economiche ormai "croniche", l'albicocco ha mantenuto quotazioni remunerative per il produttore, generando un certo interesse da parte degli operatori frutticoli.

Il miglioramento genetico paga

Buona parte dei meriti di questo successo va attribuito al miglioramento genetico che nel corso dell'ultimo decennio ha rivoluzionato il panorama varietale con l'introduzione di cultivar con sovraccolore rosso (Pinkcot®, Orange Rubis®) dalla pezzatura superiore, prolungata shelf-life, e con un calendario di maturazione nettamente più ampio rispetto al passato (da maggio ad agosto).

Tutto ciò è confermato dai numeri. In prima battuta, se si guarda un qualsiasi listino di un mercato ortofrutticolo italiano è possibile notare come una varietà senza sovraccolore come Ninfa, sia quotata la metà rispetto alle corrispettive con la "faccetta". Esaminando i prezzi all'origine la logica è la medesima: varietà obsolete non coprono i costi di produzione. Infatti, analizzando i prezzi all'origine rilevati negli ultimi cinque anni dalla Camera di commercio di Bologna (prodotto di prima categoria), cultivar come Ninfa, San Castrese, Tyrinthos, Bella d'Imola, non superano i 70 centesimi il chilo, mentre le varietà più recenti non scendono sotto gli 80 centesimi il chilo, arrivando a toccare un euro, con punte superiori all'euro/chilo per le varietà molto tardive come Faralia® (1,10 euro/kg) e Farbaly® (1,25 euro/kg). Considerando che il costo di produzione si aggira mediamente fra 0,50 e 0,70 euro/kg in relazione alla zona di produzione, è evidente la redditività che porta questa coltura.

Attenzione agli eccessi produttivi

Ovviamente, i prezzi rimarranno elevati a patto che l'offerta sia controllata. Prendiamo come esempio due annate da livelli produttivi diametralmente opposti: il 2012, un'annata di carica produttiva con 253.700 tonnellate (fonte Istat), ed il 2013, annata di scarica con 198.000 tonnellate. Nel primo caso, il livello medio dei prezzi alla produzione è sceso sotto gli 80 centesimi il chilo, mentre nel secondo sono giunti fino a 1,20 euro/kg. Annate con produzione medie attorno a 220.000 tonnellate, salvo estati particolarmente fredde che deprimono i consumi, mantengono un prezzo medio sopra i 90 centesimi/chilo.

Un altro fattore di rischio è legato all'eccesso di innovazione varietale. È ovvio, che i genetisti, a fronte di una domanda crescente di varietà sempre più rosse, sempre più precoci o sempre più tardive, introducano un numero via via maggiore di nuove cultivar con il rischio di generare confusione nei mercati e fra i produttori (come avvenuto per il pesco). Infine, c'è sempre il pericolo che i peschicoltori insoddisfatti (e sono tanti) si buttino su questa coltura, con rischi nel medio-lungo periodo di eccessi produttivi ed abbassamenti qualitativi, dovuti alla scarsa dimestichezza con questa specie. Riuscirà la filiera a mantenere il controllo o dobbiamo prepararci ad un film (purtroppo) già visto?

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