Pere Abate, i conti non tornano

La dipendenza da questa varietà e i rischi per il sistema pericolo italiano

Pere Abate, i conti non tornano
Abate o non Abate? Questo è il dilemma che sta affliggendo i pericoltori italiani dopo due annate drammatiche, due campagne che hanno messo fortemente in crisi la regina delle pere italiane.

Al World Pear Congress, che si è aperto ieri durante la prima giornata di Futurpera, il dibattito si è accesso fin da subito, nel tentativo di dare risposte ai tanti produttori presenti in sala.

Partiamo dai numeri, che ci fanno capire l’Abate-dipendenza del sistema pericolo italiano, ed emiliano romagnolo in particolare: negli ultimi 20 anni le superfici destinate ad Abate Fétel sono raddoppiate, passando dal 29% ad oltre il 50% della superficie totale investita a pere in Emilia-Romagna (che rappresenta il 70% del totale italiano). Le rese, invece, sono stagnanti e non superano le 25 tonnellate ad ettaro. Qui nasce il primo problema. Un ettaro di Abate per essere redditivo deve avere una Plv di almeno 20.000 euro/ha, che equivale ad una produzione di 30-35 tonnellate/ettaro, venduta alla media di 75 centesimi. Quindi ci sono dei problemi di carattere agronomico da risolvere e, durante le relazioni, è emerso come il sistema della forma d’impianto su cui si basa la coltivazione dell’Abate - ovvero portinnesto cotogno ed impianti a media alta densità - sta mostrando dei limiti notevoli, dovuti a problemi di morìa, di calo della longevità, di diminuzione delle rese produttive e dei calibri nel tempo, oltre ad una sensibilità maggiore alle malattie.



Se ad un quadro già fragile di suo, aggiungiamo gli attacchi di patogeni killer come la cimice asiatica e la maculatura bruna, oltre ai problemi di conservazione che colpiscono l’Abate in modo particolare, è comprensibile come il produttore sia in enormi difficoltà e molti stiano estirpando per evitare di fallire.

Quali soluzioni per cercare di invertire la rotta? Dal punto di vista agronomico la strada è quella di testare portinnesti più vigorosi, diminuendo così le densità di impianto, cercando di contenere il più possibile l’aumento di ore di manodopera che ne consegue. Inoltre, occorre tornare all’impollinazione incrociata fra varietà diverse, troppo spesso sottovalutata, ma molto importante. Quelle descritte sono solo un paio di possibili soluzioni da mettere in campo, ma il know how a disposizione può offrire sicuramente altre strade.



Ciò che preoccupa maggiormente gli agricoltori è il timore che si stia perdendo la vocazionalità innata dei nostri ambienti alla coltivazione del pero, dovuta ad una elevata pressione fito-patologica, causata da una coltura intensiva protratta negli anni e favorita ulteriormente da un cambiamento climatico che sta agevolando i patogeni e sfavorendo i produttori. A questi problemi, attualmente, non ci sono risposte definitive e soprattutto risolutive, con il rischio che non ci sia abbastanza tempo per risolvere il problema.

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