Frutta estiva, senza competitività non può esserci futuro

Bastoni: «L'Emilia-Romagna intervenga per evitare il punto di non ritorno»

Frutta estiva, senza competitività non può esserci futuro
Dalle fragole alla frutta estiva: Ilenio Bastoni, direttore generale di Apofruit, ci parla dell’andamento e dei risultati della campagna fragolicola 2020 lanciando poi un avvertimento che riguarda espressamente il settore delle drupacee dell’Emilia-Romagna, dove la continua contrazione degli ettari di pesche, nettarine ed albicocche sta prendendo una brutta piega e rischia di avere effetti devastanti sull’economia, il lavoro e l’ambiente.

Direttore, come Gruppo Apofruit siete uno dei pochi player in Italia ad avere una produzione di fragole trasversale che copre i principali areali del Sud e quelli del Nord. Come valutate nel complesso la campagna 2020, condizionata come ben sappiamo dagli effetti del Covid-19?
La pandemia ha inizialmente penalizzato in modo molto importante i consumi di prodotti altamente deperibili, tra cui le fragole, a fronte della netta riduzione della frequenza d’acquisto degli italiani. Nella prima fase del Covid-19, tutto il settore fragolicolo era quindi abbastanza preoccupato per l’andamento della campagna. Successivamente, quando due settimane dopo la pandemia si è diffusa in Europa, altri Paesi europei hanno cominciato ad avere problematiche legate a manodopera in campo e alla logistica del prodotto. Questo ha determinato due effetti tra loro correlati in Italia: l’importante riduzione dell’importazione di fragole e il miglioramento del posizionamento e collocamento del prodotto nazionale, in modo particolare nei Mercati generali, il canale che nel corso degli ultimi mesi ha dato i risultati migliori in termini di valorizzazione. Adesso occorrerà vedere come evolveranno i consumi di fragole nel post Fase 3 e quale sarà l’impatto dell’eventuale crisi economica sul potere d’acquisto degli italiani. 


Ilenio Bastoni 

Come procederà, ora, la campagna fragole di Apofruit?
Il nostro Gruppo riesce a garantire forniture di fragole italiane per quasi 12 mesi l’anno. In questo momento siamo in una fase di passaggio fra le raccolte di varietà rifiorenti in Basilicata, Campania ed Emilia-Romagna e l’avvio della stagione della Sila (Calabria), dove le attività partiranno proprio nei prossimi giorni. Per quanto riguarda il prodotto campano, siamo molto soddisfatti della partnership con la Coop Sole di Parete (Caserta), un modello di integrazione dell'offerta che rafforza e completa il posizionamento della fragola sul mercato.

Complessivamente, i volumi che andremo a sviluppare in questa campagna 2020 saranno prossimi alle 18mila tonnellate (+10% sulle annate precedenti), delle quali circa il 10-15% riguardano fragole biologiche. Anche nel segmento del bio riusciamo ad assicurare forniture costanti per tutto l'anno, soddisfacendo in particolare tutte le richieste del mercato nazionale; ci stiamo inoltre cominciando a posizionare anche in alcuni mercati esteri.

L’annata 2020 sembra essere stata finora memorabile per l’areale della Romagna, base storica dell’ortofrutta Apofruit. E’ stato davvero così?
Fin qui, tutti i territori in cui operiamo hanno registrato risultati economici interessanti e mediamente migliori rispetto a quelli dell’annata precedente. Il tutto è stato aiutato dalla netta riduzione dell’importazione e dall’offerta di un prodotto nazionale di qualità mediamente superiore rispetto alla prima parte del 2019, visto che l’andamento climatico ha favorito le caratteristiche organolettiche e la tenuta del prodotto.



Crede che, sulla base dei buoni risultati delle ultime campagne della Romagna, ci possa essere l’opportunità di rilanciare la fragolicoltura di questa zona?
Quando ho cominciato a lavorare in Apofruit, nel 1993, la Romagna era il più importante bacino fragolicolo nazionale. La nostra cooperativa ritirava circa 7mila tonnellate di fragole dalla zona di Cesena. Oggi, a distanza di quasi 30 anni, ne ritiriamo circa mille tonnellate. Si è perso quindi l’85% dei volumi. 

Le opportunità di rilancio ci sono, ma bisognerebbe prima di tutto razionalizzare il parco varietale: sono troppe 5-6 varietà per le superfici e i volumi marginali che oggi sviluppa la Regione Emilia-Romagna. Occorre guardare alla Basilicata, dove oltre il 95% della produzione è rappresentato da un’unica varietà, o alla Campania che si concentra su 3 o 4 cultivar al massimo.

La strategia di rilancio deve partire dal palato del consumatore, trovando quindi una fragola che si distacchi in termini di sapore per poi cercare di dargli una identità a livello commerciale. Ad oggi abbiamo in osservazione alcune nuove varietà in grado di combinare le caratteristiche organolettiche con la produttività e che, in questo senso, potrebbero essere interessanti per stimolare la crescita della fragolicoltura emiliano-romagnola. In merito alla produzione di questo areale mi preme però aprire una importante riflessione che riguarda la frutta estiva.

Di cosa si tratta? 
Negli ultimi quattro o cinque anni, le superfici di fragole in Emilia-Romagna sono rimaste stabili malgrado i buoni risultati di queste ultime campagne. Si è quindi limitata l’emorragia ma non si è invertita la rotta. Ciò significa che quando un’azienda smette di produrre e quindi si destruttura, farla rientrare nel business risulta essere quasi impossibile. Ritengo che questa riflessione vada allargata a 360 gradi sul territorio emiliano-romagnolo. Sono ormai diversi anni, in particolare, che le superfici di pesche, nettarine e albicocche calano continuamente: una volta che si è persa la professionalità in “casa” delle aziende agricole, poi è difficile farle tornare indietro e “recuperare” superfici anche a fronte di risultati positivi. 

Occorre quindi fare molta attenzione, perchè un percorso simile a quello delle fragole di Romagna, che negli ultimi 30 anni - come ho già detto - hanno perso l’85% dei volumi, lo stanno imboccando le produzioni di frutta estiva regionale.



Quest’anno, tra l’altro, a causa delle gelate i frutticoltori emiliano-romagnolo si trovano in gravissima difficoltà, visto che la media del danno da gelo che registra la frutta estiva regionale è superiore all’80%...
Purtroppo sì. Bisogna assolutamente trovare il modo di intervenire prima che sia troppo tardi, creando le condizioni affinché la frutticoltura emiliano-romagnola diventi competitiva, così da potersi confrontare ad armi pari sul mercato internazionale con altri Paesi produttori. Un’annata c’è la crisi di mercato, un’altra annata la cimice asiatica e la Sharka, quest’anno le gelate. Questi sono tutti elementi che rendono più difficile fare il produttore di frutta estiva nel territorio emiliano-romagnolo. Molte aziende rischiano così di prendere la strada del non ritorno. Due sono i tavoli di gioco: uno è la Regione, l’altro è Bruxelles. 

Cosa dovrebbe fare nel concreto la Regione Emilia-Romagna?  
Un segnale delle istituzioni regionali sarebbe fondamentale in questo momento. Per andare incontro ai danni da gelo del 2020, occorre trovare un sistema per dare ristoro alle aziende agricole, molte delle quali non erano neanche nelle condizioni di potersi assicurare a causa dell’impossibilità di spostarsi per il coronavirus. Bisognerebbe inoltre attivare a stretto giro un Tavolo Tecnico Regionale dove, partendo da un’analisi dei fattori competitivi del comparto della frutta estiva, si possano definire interventi per rilanciare la competitività, come ad esempio la defiscalizzazione del costo della manodopera

L’allarmante riduzione degli ettari destinati a frutteto ha un impatto negativo sull’ambiente e sull’aria, sulla manutenzione del verde, sul paesaggio, sulla manodopera e ovviamente anche sull’intero indotto del settore. Non dobbiamo mai dimenticarci, infatti, che ogni ettaro di frutteto sostiene indirettamente anche il lavoro nei settori delle tecnologie, del packaging, della distribuzione, della logistica, dell’innovazione, dei vivai. L’impatto di lungo termine sull’indotto rischia di essere pesantissimo. 

Sui tavoli europei, invece, che tipo di mosse si dovrebbero proporre?
A livello comunitario, l’Italia dovrebbe discutere di Ocm Ortofrutta e in particolare di contributi. Se ci sono drupacee che per tre anni di fila attingono da risorse per la prevenzione delle crisi di mercato, ha senso continuare a finanziare, attraverso i contributi Ocm, lo sviluppo di nuovi impianti delle stesse specie in un mercato europeo che si è dimostrato essere eccedentario dal punto di vista dell’offerta? Questo aspetto rischia di modificare la geografia delle produzioni di frutta estiva in Europa, favorendo i Paesi più competitivi a danno di quelli meno competitivi come l’Italia. Oggi c’è un disequilibro che ha poco senso. 

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