L’import cresce e insidia l’ortofrutta nazionale

Se fatichiamo a competere a casa nostra, cosa potremmo fare oltreconfine?

L’import cresce e insidia l’ortofrutta nazionale

I numeri sono impietosi, possiamo anche cercare di non pensarci ma non serve a cambiare la situazione. Il 2022 segna un ritorno alla realtà dopo l’illusione del 2021: abbiamo importato più ortofrutta fresca di quella che abbiamo esportato (per approfondimenti clicca qui ). Era già successo prima della pandemia, su volumi però più contenuti, per cui vedere quelle 110.000 tonnellate scritte in rosso non è un fulmine a ciel sereno, ma un sorpasso così è sempre traumatico. Se lo shock servisse a destarci dall’immobilità in cui ci troviamo sul fronte strategico, potrebbe almeno aiutarci a rialzare la testa, ma questo stato di fatto, al di là dei numeri, merita comunque due considerazioni.

1. La prima riguarda l’export. Il confronto con l’anno precedente può dare riscontri più o meno positivi in base al termine di paragone – peggiore se si usa il dato ISTAT per il 2021 rettificato o, migliore, se si riprende il vecchio provvisorio rilasciato nel marzo del 2022 e quindi prima del restatement operato sulla banca dati. Sebbene riferirsi all’uno o all’altro cambi il segno dell’evoluzione dell’export a valore, che con il dato rettificato diviene addirittura negativo rispetto al 2021, non cambia però la sostanza. Esportiamo in ogni caso meno ortofrutta, dai dati medi di un decennio fa sono oramai 500.000 tonnellate in meno e la situazione tendenziale è oramai stabile dal 2017 e nell’ordine dei 3,5 milioni di tonnellate, con variazioni che sono più legate alla contingenza che ad una chiara tendenza. Ciò che pesa è che questa riduzione è avvenuta in un contesto internazionale che ha visto un incremento poderoso degli scambi su tutto l’agroalimentare e non solo l’ortofrutta, In questo scenario, larga parte dell’agroalimentare made in Italy ha fatto la differenza realizzando performance ancora più significative. Parmigiano, vino, pasta e persino acqua minerale e superalcolici hanno fatto la differenza, solo l’ortofrutta arranca perché non ha ancora trovato la sua strada o, forse, non l’ha ancora cercata.

2. La seconda riguarda l’import. Che aumentino i flussi, la varietà dell’offerta e la disponibilità, così da avere prodotti con continuità nel corso dell’anno, di per sé è un bene, almeno a mio avviso, perché genera potenzialmente domanda e interesse sulla categoria. Se, però, uno dei principali produttori europei di ortofrutta vede aumentare le importazioni in modo consistente con origine dal proprio continente, come sta capitando a noi, al di là della sacrosanta libera circolazione delle merci, forse qualche considerazione vale la pena di farla? Non credete? A questo livello il problema è strategico e strutturale. Abbiamo storia, tradizione, competenza e vocazione (questa, per la verità, un po’ meno a seguito dei cambiamenti climatici), ma che dire di organizzazione, ricerca, innovazione e comunicazione? Qui mi pare ci sia molto da fare. Se fatichiamo a competere con i concorrenti a casa nostra, in prospettiva cosa potremo fare sul mercato internazionale? Non resta che ripartire dalla strategia con cui rilanciare la nostra ortofrutticoltura, per poi declinarla negli interventi strutturali necessari. Pecette e rammendi non porteranno risultati tangibili. Mi auguro, per il bene del comparto, che questo divenga il mantra del “rinato” Tavolo Ortofrutta.