Aglio Bianco Piacentino sotto assedio: la fusariosi minaccia la filiera

Alla crisi fitosanitaria si aggiungono scarsità di manodopera, alti costi di produzione e prezzi di vendita bassi

Aglio Bianco Piacentino sotto assedio: la fusariosi minaccia la filiera

Da oltre un secolo l’aglio bianco piacentino, conosciuto anche come Aglio Bianco di Monticelli d’Ongina, è il fiore all’occhiello di un territorio che lo ha trasformato in simbolo e motore di ricchezza, tanto da meritarsi l’appellativo di “Oro Bianco”. Una coltura identitaria, celebrata da mezzo secolo con la storica Fiera dell’Aglio, andata in scena lo scorso weekend a Monticelli con eventi gastronomici, culturali e momenti di approfondimento tecnico.

Francesco Delfanti, direttore commerciale dell’azienda omonima

Proprio in questo contesto, durante il convegno ospitato nella Sala Consiliare, l’attenzione si è concentrata sulla principale minaccia per il futuro della filiera: la fusariosi, malattia causata dal fungo Fusarium proliferatum, che genera il marciume secco dei bulbi. A sottolinearne la gravità è stato l’agronomo Giorgio Chiusa, docente dell’Università Cattolica di Piacenza, che ha illustrato i risultati delle ultime ricerche.

“La fusariosi rappresenta il problema fitosanitario più serio non solo per l’aglio piacentino, ma per l’intera filiera italiana”, hanno spiegato Francesco Rastelli, presidente della cooperativa CO.P.A.P., e Francesco Delfanti, direttore commerciale dell’azienda omonima, promotori dell’incontro. “Le perdite di produzione possono essere ingenti, soprattutto in post-raccolta. Si tratta di una malattia endemica, favorita dalle stagioni umide, condizione che negli ultimi anni è diventata la norma. La presenza di acqua nei bulbi è un altro fattore predisponente, che penalizza in particolar modo le pezzature più importanti, e, anche se l’aglio piacentino ha una pezzatura media, resta comunque estremamente vulnerabile, mentre a oggi non disponiamo di strumenti davvero efficaci per contrastarlo”.

La situazione è critica: “Parliamo di un problema che può azzerare il lavoro di un anno intero. Le perdite produttive possono essere devastanti. La beffa è che in Italia non esiste nemmeno un prodotto fitosanitario registrato contro la fusariosi, mentre le nuove ricerche – dalla concia dei bulbilli con microrganismi antagonisti come i Trichoderma, fino alle sperimentazioni con biocontrolli – stanno producendo solo timidi risultati. L’unico fronte su cui si sono visti progressi reali è quello dell’essiccazione, oggi molto più accurata e in grado di ridurre parzialmente i danni. Ma è un’arma spuntata, che non basta a garantire la sopravvivenza della filiera”.

Il quadro si fa ancora più cupo se si sommano le altre criticità: scarsità di manodopera, costi di produzione in continua ascesa e una distribuzione che riconosce prezzi incapaci di coprire le spese. Risultato: sempre più aziende decidono di ridurre o abbandonare la coltivazione, non solo nel piacentino, ma in tutti gli areali produttivi dell’aglio italiano, con un calo stimato del 20-30% delle superfici dedicate negli ultimi anni.

Un grido d’allarme che assume i toni di una vera e propria denuncia: “Siamo di fronte a un paradosso – affermano Rastelli e Delfanti –. Da un lato, l’Aglio Bianco Piacentino è riconosciuto come patrimonio agricolo e gastronomico unico, dall’altro, è lasciato senza difese. Le istituzioni sembrano disinteressate: mancano risorse, manca ricerca concreta, manca un piano di tutela fitosanitaria. Se la situazione non cambierà, rischiamo di assistere a un lento ma inesorabile declino, con il pericolo reale che questo prodotto simbolo venga spazzato via”.
E la chiusura è un appello che suona quasi come un ultimatum: “Noi continueremo a resistere, perché non possiamo accettare che l’Oro Bianco della Pianura Padana scompaia nell’indifferenza generale. Ma senza strumenti, senza sostegno e senza una strategia nazionale, la battaglia rischia di trasformarsi in una resa annunciata. Perdere l’aglio bianco piacentino significherebbe non solo cancellare un secolo di storia agricola, ma impoverire irrimediabilmente il patrimonio gastronomico e culturale del nostro Paese”.