Attualità
L’isola senz’acqua che annega i suoi agricoltori
In Sicilia, decenni di sprechi, dighe incompiute e reti fatiscenti raccontano il fallimento politico

In Sicilia l’abbandono dei campi non è una scelta economica né una strategia aziendale: è spesso una resa forzata. La siccità incide, ma non basta a spiegare il collasso che sta colpendo l’agricoltura dell’Isola. A determinare la crisi, come mette in luce l’ultima inchiesta di Report su Rai 3, è soprattutto il fallimento storico della gestione idrica pubblica, un sistema incapace di garantire acqua proprio dove servirebbe di più: nei campi.
Da decenni l’emergenza è diventata normalità. In molte aree rurali siciliane irrigare significa acquistare l’acqua da privati. Cisterne, autobotti e bidoni sono ormai parte integrante del paesaggio agricolo, segno evidente di un’anomalia che pesa in modo diretto sui bilanci aziendali. Un’agricoltura che dovrebbe produrre valore è costretta invece a sostenere costi straordinari solo per sopravvivere.
Il paradosso è evidente se si guarda alle infrastrutture. In Sicilia esistono decine di dighe, almeno 45 secondo le ricostruzioni giornalistiche: molte incompiute, altre inutilizzabili o ferme da anni per adeguamenti mai realizzati. Un patrimonio idrico potenziale che resta bloccato tra burocrazia, errori progettuali, contenziosi e assenza di manutenzione. Intanto, l’acqua che dovrebbe arrivare alle aziende agricole si disperde lungo reti obsolete, con perdite enormi prima ancora di raggiungere i campi. I consorzi di bonifica, che in teoria dovrebbero garantire la distribuzione dell’acqua alle aziende, si scontrano con infrastrutture fatiscenti e una gestione inefficace. Il risultato è che intere aree agricole restano all’asciutto anche quando le riserve non mancherebbero. A pagare il prezzo più alto sono le imprese ortofrutticole, per le quali l’irrigazione non è un’opzione ma una condizione essenziale di produzione.
L’inchiesta di Report mostra come la risposta istituzionale sia spesso limitata alla dichiarazione dello stato di emergenza. Un meccanismo che consente di nominare commissari straordinari e di operare in deroga alle procedure ordinarie, ma che raramente produce interventi duraturi. I fondi vengono spesi, i cantieri aperti, ma le opere restano incomplete e i problemi strutturali irrisolti.
Il caso della diga di Blufi è solo uno degli esempi più emblematici: un progetto mai arrivato a compimento, ostacolato da vincoli ambientali, criticità tecniche e – come emerge dall’inchiesta – anche da interessi criminali. Un intreccio in cui politica, gestione degli appalti e controllo del territorio finiscono per trasformare l’acqua in uno strumento di potere, anziché in un servizio pubblico al servizio dell’agricoltura.
Nelle aree simbolo dell’ortofrutta siciliana, come quelle etnee vocate alla produzione di arancia rossa, la crisi idrica assume contorni drammatici. C’è chi continua a investire, scavando pozzi e riducendo al minimo i consumi per non interrompere l’attività. Ma c’è anche chi ha già chiuso: agrumeti lasciati all’abbandono, aziende che escono dal mercato, competenze che si perdono insieme alle colture.
Il quadro che emerge è chiaro: la siccità amplifica una fragilità preesistente, ma non ne è la causa principale. Decenni di ritardi, infrastrutture mai completate e manutenzione assente hanno trasformato una crisi climatica in una crisi agricola strutturale.
Se non si interviene con una strategia di lungo periodo, la desertificazione agricola della Sicilia non sarà più una previsione, ma un dato di fatto. Meno acqua significa meno produzione ortofrutticola, meno occupazione, meno presidio del territorio. E quando l’agricoltura arretra, arretrano anche la sicurezza idrogeologica, l’economia locale e la capacità di trattenere popolazione nelle aree interne.
Senza una riforma profonda della gestione idrica e senza il superamento della logica dell’emergenza permanente, coltivare in Sicilia rischia di diventare insostenibile per la maggior parte delle aziende. A resistere saranno solo le realtà più strutturate, mentre i piccoli agricoltori – spina dorsale dell’ortofrutta siciliana – continueranno a essere schiacciati da costi crescenti e mancanza di servizi. Con una regione che, insieme all’acqua, rischia di perdere una parte fondamentale della propria identità agricola. (aa)



















