Attualità
Patate, perché non possiamo più chiamarle 'prodotti poveri'
Francesca Russo (Romagnoli) ravviva il dibatito sulla terminologia
![Patate, perché non possiamo più chiamarle 'prodotti poveri'](/upload/FOTO IFN/francesca-russo-romagnoli-1200x600.jpg)
Oggi vi proponiamo uno stimolo sull'inquadramento delle patate, comunemente indserite fra i ‘prodotti poveri’. Lo spunto, come spesso capita, ci è arrivato da una nostra lettrice: in questo caso da Francesca Russo, product manager dell'azienda Romagnoli F.lli Spa. Vi lasciamo alle sue parole e, a seguire, ler nostre considerazioni.
Gentilissima Alice Magnani,
spero di trovarla bene.
Sono Francesca Russo dell’azienda Romagnoli F.lli Spa, azienda specializzata nella commercializzazione di tuberi seme, patata di I-IV-V gamma, oltre che cipolle e altri prodotti ortofrutticoli.
Nei giorni scorsi ho avuto modo di leggere il suo articolo (clicca qui per approfondire) e le scrivo in quanto vorrei gentilmente chiederLe un chiarimento in merito alla seguente frase: “Che le referenze povere abbiano ormai raggiunto prezzi record.. etc”. Potrebbe cortesemente spiegarmi meglio a cosa si riferisce quando parla di “referenza povera”?
Dal nostro punto di vista il ripetuto etichettamento - a tratti quasi discriminatorio - nei confronti dei prodotti ortofrutticoli, qualificati in maniera approssimativa con aggettivi poco appropriati come “povero o ricco”, non arrechi beneficio a nessuna delle parti coinvolte.
In primo luogo nuoce alla produzione agricola, reduce da anni di profonda difficoltà a causa dei cambiamenti climatici, con fenomeni di siccità ed eventi catastrofici come la recente alluvione, e da problematiche fitosanitarie dai connotati drammatici che hanno portato all’abbandono di oltre 30.000 ettari coltivati a patate.
In secondo luogo danneggia noi confezionatori che lottiamo ogni giorno affinché la grande distribuzione riconosca il giusto valore - per le sopra citate condizioni-, nonché la giusta remunerazione alle aziende agricole e all’intera filiera.
Infine, ultimo ma non per importanza, non avvantaggia il consumatore che, essendo indotto a pensare che la patata (e anche altro) sia un ortaggio “povero”, non accoglie piacevolmente il fatto di pagare il giusto prezzo di quel prodotto. Per i mirtilli, invece, si è disposti a spendere anche 15 €/kg.
La maggior parte delle volte il basso prezzo “a tutti i costi” è sinonimo di scarsa qualità del prodotto e tracciabilità opaca, aspetti che vanno nella direzione opposta rispetto a quanto viene richiesto dal consumatore.
Non è giustamente il primo Roberto della Casa nei suoi convegni a spronarci a fare “cultura” e promozione dell’ortofrutta? Credo che l’etichettare in questo modo i prodotti, non sia affatto la strada giusta.
Restiamo in attesa di una sua gentile risposta.
Cordiali saluti,
Francesca Russo
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Gentile Francesca,
La ringrazio prima di tutto per l’attenzione prestata nei confronti dell’articolo e per il contributo che possiamo svilupparne in termini di contenuti.
Il problema che Lei solleva è corretto ma il cosiddetto “sentir comune” non si può cambiare dall’oggi al domani nemmeno per editto, figuriamoci nel lessico giornalistico. Parlare di prodotti poveri evoca nel lessico italiano il richiamo a tutti quegli alimenti, non solo patate e cipolle ma anche – e soprattutto in passato - polenta e legumi, che un tempo costituivano la base della dieta dei non abbienti. Non vi era né vi è volontà da parte nostra di alcuna discriminazione e – tantomeno di etichettare in modo negativo. Abbiamo usato semplicemente un modo di dire radicato nella nostra lingua.
Sgombrato il campo dalla volontà di danneggiare la filiera e dalla possibilità di avervi anche in minima parte contribuito, seguo il suo discorso, che condivido nello spirito, volto alla qualificazione dei prodotti. Qui si può e si deve certo lavorare.
La polenta – nel sentir comune - non è quasi più un cibo povero ma di nicchia, per gli amanti, non avendo più il ruolo di base alimentare a basso prezzo. Idem i legumi, che da sostituto povero della carne per le proteine, sono diventate alimento “healthy”, fonte aminoacidica nobile, perché senza le controindicazioni alimentari e etiche della carne. Anche per patate e cipolle il processo è in atto e, come lei dice, va aiutato e favorito. Da parte nostra e, con l'attività del nostro Direttore, credo che la nostra rivista sia sempre stata impegnata in questa direzione. Il processo però è lungo e non si risolve cambiando solo il lessico. Servono meno promozioni, meno primi prezzi, più funzione d’uso, tipicità e tanto altro.
Fino a poco tempo fa non c’erano problemi a definire le persone ‘diversamente abili’ come handicappati. Eppure ad oggi ci sembra un termine estremamente offensivo: questo perché c’è stato un cambio di sistema composto da nuove relazioni e da un nuovo modo di pensare.
E, tornando al nostro ambito, lo stesso sta succedendo per i fitofarmaci: guai a definirli oggi come pesticidi, un termine che sembrava classificare i prodotti quasi come ‘portatori di peste’. Ma il processo, in questo caso, è tutt'altro che concluso se ha avuto modo di seguire il dibattito sulla rivista.
Questi sono solo due esempi dai quali emergono con chiarezza le vere necessità del settore: capacità di ragionamento, sensibilizzazione e tanto, tanto tempo. Quindi siamo d’accordo con lei nel dire che le patate non possono essere relegate al ruolo ‘prodotti poveri’ e da oggi ci impegneremo ancor più per modificare questo percepito anche nel lessico.
Il suo stimolo ci ha fatto estremamente piacere perché significa che l’interesse è alto per il nostro lavoro di valorizzazione della filiera ed è nostro obiettivo continuare in questo senso. Come sempre la nostra testata parla del valore dei prodotti e dei protagonisti del settore ma, purtroppo, parlarne non significa aggiungere in automatico valore. Ovvero noi offriamo lo stimolo poi il lavoro vero e proprio va portato avanti dalla filiera.
Cordialmente,
Alice
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